domenica 7 dicembre 2014





          Le chiese davanti alla crisi economica

di Dieter Kampen

Relazione in occasione della Riforma, Trieste, Centro Paolo VI, 30 ottobre 2014

La crisi economica è di gran lunga il tema dominante dei nostri tempi. Basta aprire il giornale o accendere la televisione. Quindi si potrebbe pensare che anche nelle chiese il tema sia dibattuto ferocemente, che i pastori e le comunità cristiane si ritrovino nelle piazze accanto ai disoccupati. Ma non è così, almeno non in forma massiccia.
Le ragioni per questa assenza possono essere varie. Le chiese sono organismi complessi e quindi si muovono lentamente. Sono anche corte di risorse umane e quindi riescono a malapena a portare avanti le proprie attività e incombenze. Un'altra ragione potrebbe essere che non è chiaro come uscire dalla crisi. Oggi l'economia è globalizzata e gli stati nazionali possono influenzarla solo marginalmente. Ci sono teorie differenti su come uscire dalla crisi, tutto è molto complicato e quindi non si sa bene che pesci pigliare. C'è un certo sentimento di impotenza di fronte ai meccanismi economici difficilmente controllabili.
Comunque non è che non si è fatto niente. Accanto a molteplici piccole attività locali, l'impegno di vari movimenti come le ACLI o le comunità di base, c'è da menzionare soprattutto la critica di Papa Francesco al capitalismo e al materialismo. È sicuramente una grande fortuna per la Chiesa cattolica avere in questo momento di crisi un Papa che da sempre è stato molto sensibile nei confronti dei poveri e degli emarginati. Forse meno conosciuto è che la Federazione Mondiale delle Chiese Riformate già anni fa ha proclamato il rifiuto del capitalismo selvaggio quasi a livello di confessione di fede.
La critica del capitalismo è giustificato in quanto nella sua forma attuale è molto distruttivo. Comunque è un sistema economico che ha anche i suoi vantaggi e quindi non credo che la via sia di andare contro il capitalismo, ma piuttosto la politica deve regolarlo per impedire le conseguenze più distruttive. Quindi si tratta di migliorarlo, non di abolirlo. Questo è compito della politica, ma certamente le chiese hanno il compito di esortare i politici ad agire in questo senso.
La critica del materialismo è giustificato in quanto ha un'immagine distorta dell'uomo e della realtà. Però chiamare alla povertà non è neanche una soluzione. Per vivere serenamente, per formarsi, per interagire con il mondo, per viaggiare ecc. abbiamo bisogno di soldi. Perciò un appello alla povertà troverà pochi seguaci e comunque non è neanche molto sensato. Certo, si può chiedere di limitare il consumismo e lo spreco inutile di soldi e risorse, ma penso che la maggior parte della gente lo fa già di per sé, non tanto per coscienza, ma per necessità.
Un'altra cosa è una decisione personale a una maggiore povertà. Nella vita ci possono essere delle situazioni in cui una persona deve scegliere p.es. tra la salute e la carriera, tra famiglia e lavoro, tra coscienza e guadagno. In queste situazioni è importante che la persona si ricordi delle parole di Gesù "Cercate prima il regno di Dio...".
Un'ulteriore motivo per una maggiore povertà può essere il desiderio di aiutare altri più poveri. Questo è un appello che il cristiano sente continuamente e naturalmente in tempi di crisi questo appello suona più forte. La risposta radicale che il cristiano deve essere povero ha il suo fascino, ma non lo ritengo percorribile per la maggior parte delle persone. Perciò anche qui si dovrebbe lasciare la risposta a una decisione personale, non nel senso che un cristiano potrebbe decidere di rispondere o meno, ma nel senso di rispondere individualmente sulla misura del proprio impegno realizzabile.
Quindi la critica del capitalismo e del materialismo, a cui spesso viene legata la critica del consumismo, hanno la loro importanza, ma non mi sembrano una critica pertinente alla crisi in atto.

Vorrei quindi articolare la mia critica intorno a un concetto che vorrei chiamare "mentalità economica", concetto che ha certamente a che fare con il capitalismo e il materialismo, ma con cui intendo ancora qualcosa altro. Per descrivere questa "mentalità economica" basta pensare a una qualsiasi impresa commerciale. Se alla fine dell'anno quest'impresa ha un bel plus nel conto economico si dice che l'imprenditore o il manager ha avuto successo e quindi viene festeggiato, onorato e ben compensato. Questa reazione fa sì che il guadagno economico occupi tutta la percezione e vengono quindi eclissati tutti gli altri aspetti dell'impresa.
È una reazione in gran parte irrazionale perché l'agire di un imprenditore ha tante conseguenze e non solo economiche. Si può p.es. chiedere quale è il prezzo in termini sociali di questo successo. Sfruttamento? Razionalizzazione e quindi disoccupazione? Stress con conseguente malattie? Si può anche chiedere quale è il prezzo in termini ambientali del successo? Si ha rinunciato all'energia di fonti rinnovabili o a mezzi di trasporto di minore impatto ambientale, perché economicamente non convenienti? Si ha rinunciato a qualche misura antinquinamento perché legalmente non obbligatoria? Si può anche chiedere quale è il prezzo morale di un dato successo. L'imprenditore si è comportato in modo onesto, umano e sociale e ha dato un esempio buono oppure è il furbo che spinge gli altri alla furbizia? Poi ci sono tanti altri aspetti, p.es. culturali, estetici, spirituali ecc. La cosa strana dell'attuale sistema economico è che l'imprenditore si tiene il guadagno e il successo, mentre i costi umani, sociali e ambientali devono essere pagati dalla società.
Un piccolo imprenditore che conosce bene i suoi dipendenti e ha un po' di coscienza terrà conto di questi altri fattori e cercherà di agire in modo socialmente sostenibile. Però in una grande multinazionale quotata in borsa l'aspetto economico è l'unico criterio che conta. Il guai è che la mentalità economica ormai è stata interiorizzata anche da molti imprenditori piccoli in modo che agiscono secondo questa mentalità senza avere neanche il minimo scrupolo di coscienza. E siccome anche il loro ambiente intorno ha interiorizzato questa mentalità non lo può neanche correggere, ma la rinforza ancora, con il riconoscimento del successo economico.
Quindi una prima caratteristica di ciò che chiamo mentalità economica è il suo carattere monocausale o meglio monofinale, potremmo anche dire primitivo, perché dalle mille conseguenze che il nostra agire effettivamente ha, viene visto solo l'aspetto economico. Il guaio è che questa visione primitiva nella maggior parte delle persone non è una scelta consapevole, ma la dominanza dell'aspetto economico, rafforzato dal guadagno, dai complimenti della gente intorno, dai mass media ecc, crea una vera e propria cecità per gli altri aspetti.
Un altro aspetto della mentalità economica è la sua tendenza atemporale. Raramente vengono prese in considerazione le conseguenze future del proprio agire. Nelle grandi imprese, nella politica, ma purtroppo ormai anche nelle piccole realtà, viene osannato chi alla fine dell'anno può presentare un bilancio positivo. Stranamente non interessa se si tratta solo di un risultato momentaneo comprato con lo spreco di risorse o grazie a mancanti investimenti che poi mancheranno in futuro. Quindi invece di atemporalità si potrebbe anche parlare di irresponsabilità.
Questa irresponsabilità atemporale si vede dappertutto. Non contano i benefici a lungo termine, ma solo il successo istantaneo. Naturalmente sarà difficile evitare il collasso ambientale del pianeta terra se non si prendono in considerazione le conseguenze a lungo termine del proprio agire.
Un terzo aspetto della mentalità economica è la sua inumanità. L'uomo viene denigrato a mezzo in funzione del guadagno. Per l'imprenditore il dipendente non conta come persona, ma è un fattore di guadagno o di costo. In un ottica di conto economico questo è inevitabile e non c'è niente di male. Il problema nasce, quando l'aspetto economico diventa l'unica realtà che conta, perché in questo caso l'uomo come persona non conta più niente al di fuori dei conti.
Questo significa che l'uomo per valere qualcosa deve guadagnare. C'è quindi una pressione enorme sulle persone che mina la loro autostima. E questo non vale solo per il disoccupato, ma anche per chi lavora, perché non basta guadagnarsi da vivere. Per valere veramente si deve guadagnare di più. Ma anche guadagnare di più non è mai sufficiente, perché c'è sempre un di più.
Questa mentalità corrode anche la solidarietà. Gli uomini sono in continua concorrenza, tutti contro tutti. Chi perde in questa lotta viene visto come perdente. Invece di aiutare chi ha perso il lavoro, questo viene visto come perdente e viene punito per la sua incapacità. Mi chiedo come sia possibile che in un paese ricco e tecnologicamente avanzata come l'Italia non esista un sistema sociale che garantisca a tutti una sopravvivenza dignitosa. C'è forse l'idea di fondo che chi non c'è la fa è colpevole? Forse punendo i perdenti si vuole esorcizzare la paura dal proprio potenziale fallimento che come ombra accompagna ciascuno di noi?
La disumanizzazione che degrada le persone a mezzi del sistema economico comincia già in tenera età. Oggi a scuola non si impara più il latino, ma l'inglese, perché l'idea guida dell'educazione non è più formare persone autonome e di alto livello culturale, ma di preparare i ragazzi al mondo del lavoro. Vedo dai ragazzi della mia Comunità, che spesso stanno sotto una pressione terribile, che già a 14 anni sono pieni di paure riguardo al loro futuro e che gli mancano i tempi di gioco, tempi creativi indispensabile per una maturazione completa. Più tardi non si fonda una famiglia e non si creano bambini, perché per poter valere qualcosa è più importante la carriera. La disumanizzazione riguarda anche la distruzione di tradizioni, di cultura, di creatività, perché sono tutte cose che non hanno un ritorno economico, per cui non c'è scopo e tempo per coltivarle. La disumanizzazione finisce poi con la vecchiaia in cui gli anziani, ormai ritenuti inutili e considerati un costo economico e di tempo, vengono abbandonato in apposite strutture. Naturalmente e per fortuna non è dappertutto così, ma penso che siano tendenze inerenti alla mentalità economica.


Allora fin qui abbiamo visto che la mentalità economica è monofinale e primitivo, atemporale e irresponsabile, inumano e distruttivo. Allora ci si chiede come mai l'homo sapiens del 21esimo secolo in gran numero si è conformato a questo modo di pensare?
Il fascino di questa mentalità è sicuramente il successo che spesso lo accompagna. Il successo, anche se è solo materiale, rende cieco per le conseguenze morali, psicologiche, spirituali, sociali, ambientali ecc. Poi ogni idea distorta si basa su un'idea di per sé ragionevole. Chi vuole negare che è comunque necessario far quadrare i conti, che una sana competizione spinge a prestazioni migliori, che il sistema capitalista ha portato ricchezza materiale e progresso tecnologico. La distorta mentalità economica può basarsi quindi su argomentazioni ben comprensibili. Questo spiega molto, ma non tutto. Ormai la mentalità economica viene inculcata già ai bambini dai genitori, dalla scuola, dai mass media, dalla società tutta. Anche i mass media, i luoghi di formazione, la cultura e persino l'arte obbediscono in gran parte alla mentalità del mercato. È molto difficile che qualcuno si possa sottrarre alla dominanza di questa mentalità. Come tutte le ideologie non accetta le critiche e punisce duramente chi la mette in questione. Possiamo senz'altro dire che si tratta di un'ideologia dittatrice e totalizzante, non meno pericoloso del fascismo, di cui a distanza di decenni non possiamo più capire come tante persone potevano aderirci. Si tratta di un'ideologia estremamente pericolosa perché sta distruggendo a gran passo la nostra cultura, le nostre tradizioni, il nostro stato sociale, la nostra umanità e la nostra terra.


Come allora le chiese devono reagire alla crisi economica che in gran parte è un risultato di questa mentalità e ne mostra gli effetti negativi che comunque anche già prima si facevano sentire?

Primo: Innanzitutto le chiese devono dire no a questa mentalità. Devono individuarla e denunciarla. Devono far sentire la loro voce. Questo è la cosa più importante. Però non ho molta speranza che questo accada. Purtroppo anche le chiese al loro interno sono già infettate da questa mentalità distorta, nonostante questa ideologia stia in forte contrasto con il messaggio cristiano. Quindi i cristiani non possono aspettare che le chiese come grandi organismi si muovano. La resistenza deve venire dal basso. In ambito cattolico p.es. mediante dei movimenti, in ambito evangelico p.es. mediante piccole comunità indipendenti.

Secondo: Le chiese devono riscoprire all'interno della loro tradizione quei elementi che possono aiutare a contrastare la mentalità regnante. Penso p.es. all'Eucarestia. La condivisione del pane e del vino è quel gesto che Gesù ci ha lasciato come testamento e in cui si esprime tutta la sua mentalità che poi è diametralmente opposta a quella descritta. O penso all'annuncio centrale della giustificazione per sola grazia. Se oggi la gente cerca di guadagnarsi un valore mediante il proprio successo, non è forse la stessa cosa come 500 anni fa, quando la gente cercava di guadagnarsi la salvezza mediante le buone opere? C'è quindi tutto un lavoro teologico da fare che ricuperi il messaggio cristiano per affrontare la crisi.

Terzo: le chiese devono liberare le persone del sentimento di impotenza che molti sentono di fronte alla crisi economica. C'è un diffuso sentimento di fatalismo di fronte al dominio dell'economia che paralizza e impedisce il cambiamento. L'annuncio dell'Evangelo invece libera. Dove Dio entra nella nostra vita, si aprono nuovi orizzonti. Dove Dio diventa il Signore, il dominio dell'amore ci libera dal dominio delle potenze di questo mondo. Così liberato l'uomo può anche agire attivamente per un mondo più giusto.

Quarto: la mancante risposta delle chiese alla crisi economica accelera la loro perdita di significanza nella società. Non è che le parrocchie spariranno, ma saranno sempre meno importanti. Questo, perché una parrocchia aperta a tutti e con 5000 membri sulla carta, è troppo disomogenea per poter vivere una vita cristiana convincente. Sarà necessario che si formino piccole comunità e movimenti all'interno dei quali si vive come in una grande famiglia. Non dico che come i primi cristiani devono mettere tutti i loro beni in comune, ma di sicuro ci deve essere una forte rete di solidarietà che impegna tutti e non lascia solo nessuno. Nelle chiese si dovrebbe vivere una contracultura che dimostri nella realtà che altri modelli di vita sono possibili.

Quinto: le chiese non devono solo denunciare la falsa mentalità, ma devono anche impegnarsi politicamente per diminuire i danni della mentalità economica. Visto che i mercati oggi sono globalizzati, le chiese, anche esse globali, potrebbero perfino avere un ruolo chiave per spingere a regolarizzazioni internazionali del mercato.
Naturalmente è facile di promuovere valori come p.es. la solidarietà, ma è difficile trasformarli in programmi politici concreti. Magari un programma di buone intenzioni può non avere successo. Se p.es. si aumentasse le tasse ai ricchi per dare di più ai poveri, i ricchi porterebbero i loro soldi all'estero e quindi i poveri diventerebbero ancora più poveri. Oppure se si facesse il contrario e si abbassasse le tasse ai ricchi per farli portare i loro soldi in Italia, magari alla fine i ricchi diventerebbero ancora più ricchi mentre i poveri avrebbero ancora di meno, perché allo Stato mancherebbero le tasse per i programmi di educazione, sanità o solidarietà. Quindi non ci sono soluzioni facili, ma questo non significa che dobbiamo arrenderci.


Come sia, anche se è difficile parlare di programmi concreti, vorrei comunque accennare a un'idea che ritengo molto promettente e cioè il reddito cittadino. L'idea viene promossa in numerose variazioni e con diciture diverse, per cui il concetto non è univoco. L'idea di base, che in seguito intendo con reddito cittadino, è che ogni cittadino, indipendentemente se lavora o meno, riceva uno stipendio che gli permetta di vivere in condizioni modeste, ma dignitose.
Non vorrei adesso discutere sulla finanziabilità di quest'idea. Spesso il concetto viene respinto con l'argomento che lo Stato non ha soldi, senza neanche prenderlo in considerazione. Però questo modo di pensare tradisce già la dipendenza dalla mentalità economica. Invece dovremmo capire che i soldi e l'economia sono mezzi non fini. Quindi prima dovremmo pensare quale società vogliamo e poi si può riflettere sulle possibilità e modalità di concretizzarla. Naturalmente il reddito cittadino richiederebbe molti cambiamenti e un sistema di tassazione radicalmente diverso. Comunque ci sono degli studi che si possono consultare e che sono molto promettenti. Come sia, non è il luogo di parlare adesso sulle modalità di realizzazione. Vorrei invece enumerare alcuni ragioni per cui un tale sistema sarebbe augurabile.

1. Innanzitutto si tratta di una questione di dignità. Trovo infatti una vergogna che in un paese, nonostante tutto ricco, come l'Italia, delle persone in difficoltà vengono lasciate sole.

2. Nel sistema attuale l'individuo deve guadagnarsi un proprio valore e un posto all'interno della società. Con il reddito cittadino invece ad ogni persona viene attribuito già un valore in quanto persona. Ogni persona fa parte della società e può contare su una solidarietà di fondo. Questa svolta potrebbe portare a un cambiamento fondamentale di mentalità e di convivenza civile. Non c'è più la lotta tutti contro tutti, ma sana competizione sulla base di una solidarietà di fondo.
Si dice che agli italiani manchi il senso civico, la responsabilità per il bene comune che nei paesi nordici sembra più sviluppata. Mi chiedo se questo, se è vero, non sia causato anche da un sistema sociale differente. Chi sa che lo Stato gli aiuta quando è in difficoltà, sarà molto più propenso di essere solidale anche lui con lo Stato. C'è quindi un circolo vizioso che si autorafforza in positivo o negativo secondo il livello di solidarietà offerto. Un cambiamento di mentalità potrebbe abbassare l'indice di criminalità e di sottrazione delle tasse e aumentare il volontariato e la beneficenza privata. Non sono cambiamenti da sottovalutare anche economicamente.

3. L'idea che ognuno è autoresponsabile per la propria fortuna, cioè basta lavorare, non è più valido. Il progresso tecnologico ha razionalizzato il lavoro e per molti il lavoro non c'è più. Inutile quindi di promettere sempre la creazione di nuovi posti di lavoro o di aspettare una ripresa dell'economia che anche non risolverà il problema. Dobbiamo renderci conto che con l'attuale sistema economico e lo sviluppo tecnologico non c'è lavoro per tutti. Allora una società deve riflettere cosa fare con le persone che non possono lavorare. Semplicemente insistere sul dovere di lavorare e di lasciare solo chi non lo può fare, non mi sembra una soluzione sensata.

4. Il reddito cittadino rafforzerebbe il mercato interno. Oggi abbiamo le tecnologie e le capacità industriali per produrre sufficientemente, affinché tutti possono vivere serenamente. Invece le fabbriche chiudono o vanno in cassa integrazione, perché la gente non ha i soldi per comprare i loro prodotti. È una situazione assurda.
In tempi preindustriali le crisi erano spesso causate da una oggettiva mancanza di risorse, p.es. causato da un maltempo e di una conseguente mietitura povera. Da allora siamo sempre ancorati al vecchio principio della mancanza di risorse. Il progresso tecnologico invece ci permette, cum grano salis, di produrre quello e quanto vogliamo. Importante è quindi la gestione della produzione e la distribuzione dei prodotti per cui si devono trovare modelli politici ed economici adeguati.

5. Grazie al progresso tecnologico sempre meno persone possono produrre sempre più merce. Quindi nei ultimi decenni il costo delle merci industriali è diminuito costantemente. La stessa cosa non vale per tutte queste prestazioni che vengono fatte dalle persone in prima persona, come gli educatori, p.es. insegnanti, o l'assistenza, p.es. gli infermieri, o i cultori dell'arte, p.es. i musicisti ecc. Quindi cosa è successo? Mentre le merci sono diventate sempre più economiche, le prestazioni legate alle persone sono rimaste invariate. La conseguenza è da una parte che tutte queste professioni vengono pagate molto male rispetto a chi lavora nell'industria e quindi le menti migliori non le scelgono più, se non per vocazione, e dall'altra parte la gente non può più permettersi di comprare i loro servizi e preferisce invece comprare merci che sembrano aver un migliore rapporto qualità prezzo. Tutto questo meccanismo conduce ad un impoverimento culturale e umano enorme.
Cosa invece succede con il reddito cittadino? Chi lavora riceve una parte dello stipendio, cioè la somma del reddito cittadino, dallo Stato. Probabilmente i salari aumenterebbero un po', sopratutto presso le categorie attualmente sottopagate, ma comunque il datore di lavoro pagherebbe molto meno di adesso. Mentre questo meccanismo avrebbe solo poca influenza sul prezzo delle merci, in quanto prodotte con poche persone e molti macchinari, il reddito cittadino diminuirebbe radicalmente il costo di lavoro assistenziale e culturale, in molti casi della metà. Quindi tutti questi professioni culturali e assistenziali sarebbero nuovamente accessibili e vivrebbero una rifioritura, cosa che sicuramente renderebbe la nostra società molto più vivibile.

6. Il progresso tecnologico continua e la ricerca sull'intelligenza artificiale e sui robot, che possono assumersi compiti sempre più complessi, è in pieno sviluppo. Già adesso esistono fabbriche quasi completamente automatizzate. E siamo solo all'inizio di una nuova era di industrializzazione che cambierà la nostra vita radicalmente. Questo progresso è pieno di pericoli come p.es. la monopolizzazione del potere, ma è anche pieno di opportunità. Se oggi un operaio viene sostituito con un robot, questo fatto viene visto negativamente, perché per l'operaio significa povertà e esclusione. Invece dobbiamo creare una società in cui l'impiego di un robot è un motivo di gioia, perché regala all'uomo tempo libero che può sfruttare in modo creativo. Perciò il progresso tecnologico ci spinge a nuovi modelli di economia e di società e dipende da noi se saranno positivi o meno.

A monte di tutti i programmi politici e economici c'è sempre una visione dell'uomo. Mi sembra che oggi i programmi politici e economici vengono spesso dominati dalla mentalità economica che come ho già descritto riducono l'uomo a mezzo in funzione dell'economia. Noi come chiese dobbiamo difendere la dignità della persona che non deve mai essere mezzo, ma fine. L'economia deve servire l'uomo, non viceversa. Quindi ci dobbiamo fare promotori di concetti che rispecchino non la mentalità economica, ma una mentalità cristiana o più generalmente detta umana. Penso che in questi tempi di crisi e di cambiamenti enormi sia questa la vocazione più urgente delle chiese e la loro credibilità dipenderà dal fatto che vi rispondano o meno.
Amen.