Le chiese davanti alla crisi
economica
di Dieter Kampen
Relazione in occasione della
Riforma, Trieste, Centro Paolo VI, 30 ottobre 2014
La crisi economica è di gran lunga
il tema dominante dei nostri tempi. Basta aprire il giornale o accendere la
televisione. Quindi si potrebbe pensare che anche nelle chiese il tema sia
dibattuto ferocemente, che i pastori e le comunità cristiane si ritrovino nelle
piazze accanto ai disoccupati. Ma non è così, almeno non in forma massiccia.
Le ragioni per questa assenza
possono essere varie. Le chiese sono organismi complessi e quindi si muovono
lentamente. Sono anche corte di risorse umane e quindi riescono a malapena a
portare avanti le proprie attività e incombenze. Un'altra ragione potrebbe
essere che non è chiaro come uscire dalla crisi. Oggi l'economia è globalizzata
e gli stati nazionali possono influenzarla solo marginalmente. Ci sono teorie
differenti su come uscire dalla crisi, tutto è molto complicato e quindi non si
sa bene che pesci pigliare. C'è un certo sentimento di impotenza di fronte ai
meccanismi economici difficilmente controllabili.
Comunque non è che non si è fatto
niente. Accanto a molteplici piccole attività locali, l'impegno di vari
movimenti come le ACLI o le comunità di base, c'è da menzionare soprattutto la
critica di Papa Francesco al capitalismo e al materialismo. È sicuramente una
grande fortuna per la Chiesa cattolica avere in questo momento di crisi un Papa
che da sempre è stato molto sensibile nei confronti dei poveri e degli
emarginati. Forse meno conosciuto è che la Federazione Mondiale delle Chiese
Riformate già anni fa ha proclamato il rifiuto del capitalismo selvaggio quasi a
livello di confessione di fede.
La critica del capitalismo è
giustificato in quanto nella sua forma attuale è molto distruttivo. Comunque è
un sistema economico che ha anche i suoi vantaggi e quindi non credo che la via
sia di andare contro il capitalismo, ma piuttosto la politica deve regolarlo per
impedire le conseguenze più distruttive. Quindi si tratta di migliorarlo, non di
abolirlo. Questo è compito della politica, ma certamente le chiese hanno il
compito di esortare i politici ad agire in questo senso.
La critica del materialismo è
giustificato in quanto ha un'immagine distorta dell'uomo e della realtà. Però
chiamare alla povertà non è neanche una soluzione. Per vivere serenamente, per
formarsi, per interagire con il mondo, per viaggiare ecc. abbiamo bisogno di
soldi. Perciò un appello alla povertà troverà pochi seguaci e comunque non è
neanche molto sensato. Certo, si può chiedere di limitare il consumismo e lo
spreco inutile di soldi e risorse, ma penso che la maggior parte della gente lo
fa già di per sé, non tanto per coscienza, ma per necessità.
Un'altra cosa è una decisione
personale a una maggiore povertà. Nella vita ci possono essere delle situazioni
in cui una persona deve scegliere p.es. tra la salute e la carriera, tra
famiglia e lavoro, tra coscienza e guadagno. In queste situazioni è importante
che la persona si ricordi delle parole di Gesù "Cercate prima il regno di
Dio...".
Un'ulteriore motivo per una
maggiore povertà può essere il desiderio di aiutare altri più poveri. Questo è
un appello che il cristiano sente continuamente e naturalmente in tempi di crisi
questo appello suona più forte. La risposta radicale che il cristiano deve
essere povero ha il suo fascino, ma non lo ritengo percorribile per la maggior
parte delle persone. Perciò anche qui si dovrebbe lasciare la risposta a una
decisione personale, non nel senso che un cristiano potrebbe decidere di
rispondere o meno, ma nel senso di rispondere individualmente sulla misura del
proprio impegno realizzabile.
Quindi la critica del capitalismo
e del materialismo, a cui spesso viene legata la critica del consumismo, hanno
la loro importanza, ma non mi sembrano una critica pertinente alla crisi in
atto.
Vorrei quindi articolare la mia
critica intorno a un concetto che vorrei chiamare "mentalità economica",
concetto che ha certamente a che fare con il capitalismo e il materialismo, ma
con cui intendo ancora qualcosa altro. Per descrivere questa "mentalità
economica" basta pensare a una qualsiasi impresa commerciale. Se alla fine
dell'anno quest'impresa ha un bel plus nel conto economico si dice che
l'imprenditore o il manager ha avuto successo e quindi viene festeggiato,
onorato e ben compensato. Questa reazione fa sì che il guadagno economico occupi
tutta la percezione e vengono quindi eclissati tutti gli altri aspetti
dell'impresa.
È una reazione in gran parte
irrazionale perché l'agire di un imprenditore ha tante conseguenze e non solo
economiche. Si può p.es. chiedere quale è il prezzo in termini sociali di questo
successo. Sfruttamento? Razionalizzazione e quindi disoccupazione? Stress con
conseguente malattie? Si può anche chiedere quale è il prezzo in termini
ambientali del successo? Si ha rinunciato all'energia di fonti rinnovabili o a
mezzi di trasporto di minore impatto ambientale, perché economicamente non
convenienti? Si ha rinunciato a qualche misura antinquinamento perché legalmente
non obbligatoria? Si può anche chiedere quale è il prezzo morale di un dato
successo. L'imprenditore si è comportato in modo onesto, umano e sociale e ha
dato un esempio buono oppure è il furbo che spinge gli altri alla furbizia? Poi
ci sono tanti altri aspetti, p.es. culturali, estetici, spirituali ecc. La cosa
strana dell'attuale sistema economico è che l'imprenditore si tiene il guadagno
e il successo, mentre i costi umani, sociali e ambientali devono essere pagati
dalla società.
Un piccolo imprenditore che
conosce bene i suoi dipendenti e ha un po' di coscienza terrà conto di questi
altri fattori e cercherà di agire in modo socialmente sostenibile. Però in una
grande multinazionale quotata in borsa l'aspetto economico è l'unico criterio
che conta. Il guai è che la mentalità economica ormai è stata interiorizzata
anche da molti imprenditori piccoli in modo che agiscono secondo questa
mentalità senza avere neanche il minimo scrupolo di coscienza. E siccome anche
il loro ambiente intorno ha interiorizzato questa mentalità non lo può neanche
correggere, ma la rinforza ancora, con il riconoscimento del successo economico.
Quindi una prima caratteristica di
ciò che chiamo mentalità economica è il suo carattere monocausale o meglio
monofinale, potremmo anche dire primitivo, perché dalle mille conseguenze che il
nostra agire effettivamente ha, viene visto solo l'aspetto economico. Il guaio è
che questa visione primitiva nella maggior parte delle persone non è una scelta
consapevole, ma la dominanza dell'aspetto economico, rafforzato dal guadagno,
dai complimenti della gente intorno, dai mass media ecc, crea una vera e propria
cecità per gli altri aspetti.
Un altro aspetto della mentalità
economica è la sua tendenza atemporale. Raramente vengono prese in
considerazione le conseguenze future del proprio agire. Nelle grandi imprese,
nella politica, ma purtroppo ormai anche nelle piccole realtà, viene osannato
chi alla fine dell'anno può presentare un bilancio positivo. Stranamente non
interessa se si tratta solo di un risultato momentaneo comprato con lo spreco di
risorse o grazie a mancanti investimenti che poi mancheranno in futuro. Quindi
invece di atemporalità si potrebbe anche parlare di irresponsabilità.
Questa irresponsabilità atemporale
si vede dappertutto. Non contano i benefici a lungo termine, ma solo il successo
istantaneo. Naturalmente sarà difficile evitare il collasso ambientale del
pianeta terra se non si prendono in considerazione le conseguenze a lungo
termine del proprio agire.
Un terzo aspetto della mentalità
economica è la sua inumanità. L'uomo viene denigrato a mezzo in funzione del
guadagno. Per l'imprenditore il dipendente non conta come persona, ma è un
fattore di guadagno o di costo. In un ottica di conto economico questo è
inevitabile e non c'è niente di male. Il problema nasce, quando l'aspetto
economico diventa l'unica realtà che conta, perché in questo caso l'uomo come
persona non conta più niente al di fuori dei conti.
Questo significa che l'uomo per
valere qualcosa deve guadagnare. C'è quindi una pressione enorme sulle persone
che mina la loro autostima. E questo non vale solo per il disoccupato, ma anche
per chi lavora, perché non basta guadagnarsi da vivere. Per valere veramente si
deve guadagnare di più. Ma anche guadagnare di più non è mai sufficiente, perché
c'è sempre un di più.
Questa mentalità corrode anche la
solidarietà. Gli uomini sono in continua concorrenza, tutti contro tutti. Chi
perde in questa lotta viene visto come perdente. Invece di aiutare chi ha perso
il lavoro, questo viene visto come perdente e viene punito per la sua
incapacità. Mi chiedo come sia possibile che in un paese ricco e
tecnologicamente avanzata come l'Italia non esista un sistema sociale che
garantisca a tutti una sopravvivenza dignitosa. C'è forse l'idea di fondo che
chi non c'è la fa è colpevole? Forse punendo i perdenti si vuole esorcizzare la
paura dal proprio potenziale fallimento che come ombra accompagna ciascuno di
noi?
La disumanizzazione che degrada le
persone a mezzi del sistema economico comincia già in tenera età. Oggi a scuola
non si impara più il latino, ma l'inglese, perché l'idea guida dell'educazione
non è più formare persone autonome e di alto livello culturale, ma di preparare
i ragazzi al mondo del lavoro. Vedo dai ragazzi della mia Comunità, che spesso
stanno sotto una pressione terribile, che già a 14 anni sono pieni di paure
riguardo al loro futuro e che gli mancano i tempi di gioco, tempi creativi
indispensabile per una maturazione completa. Più tardi non si fonda una famiglia
e non si creano bambini, perché per poter valere qualcosa è più importante la
carriera. La disumanizzazione riguarda anche la distruzione di tradizioni, di
cultura, di creatività, perché sono tutte cose che non hanno un ritorno
economico, per cui non c'è scopo e tempo per coltivarle. La disumanizzazione
finisce poi con la vecchiaia in cui gli anziani, ormai ritenuti inutili e
considerati un costo economico e di tempo, vengono abbandonato in apposite
strutture. Naturalmente e per fortuna non è dappertutto così, ma penso che siano
tendenze inerenti alla mentalità economica.
Allora fin qui abbiamo visto che
la mentalità economica è monofinale e primitivo, atemporale e irresponsabile,
inumano e distruttivo. Allora ci si chiede come mai l'homo sapiens del 21esimo
secolo in gran numero si è conformato a questo modo di pensare?
Il fascino di questa mentalità è
sicuramente il successo che spesso lo accompagna. Il successo, anche se è solo
materiale, rende cieco per le conseguenze morali, psicologiche, spirituali,
sociali, ambientali ecc. Poi ogni idea distorta si basa su un'idea di per sé
ragionevole. Chi vuole negare che è comunque necessario far quadrare i conti,
che una sana competizione spinge a prestazioni migliori, che il sistema
capitalista ha portato ricchezza materiale e progresso tecnologico. La distorta
mentalità economica può basarsi quindi su argomentazioni ben comprensibili.
Questo spiega molto, ma non tutto. Ormai la mentalità economica viene inculcata
già ai bambini dai genitori, dalla scuola, dai mass media, dalla società tutta.
Anche i mass media, i luoghi di formazione, la cultura e persino l'arte
obbediscono in gran parte alla mentalità del mercato. È molto difficile che
qualcuno si possa sottrarre alla dominanza di questa mentalità. Come tutte le
ideologie non accetta le critiche e punisce duramente chi la mette in questione.
Possiamo senz'altro dire che si tratta di un'ideologia dittatrice e
totalizzante, non meno pericoloso del fascismo, di cui a distanza di decenni non
possiamo più capire come tante persone potevano aderirci. Si tratta di
un'ideologia estremamente pericolosa perché sta distruggendo a gran passo la
nostra cultura, le nostre tradizioni, il nostro stato sociale, la nostra umanità
e la nostra terra.
Come allora le chiese devono
reagire alla crisi economica che in gran parte è un risultato di questa
mentalità e ne mostra gli effetti negativi che comunque anche già prima si
facevano sentire?
Primo: Innanzitutto le chiese
devono dire no a questa mentalità. Devono individuarla e denunciarla. Devono far
sentire la loro voce. Questo è la cosa più importante. Però non ho molta
speranza che questo accada. Purtroppo anche le chiese al loro interno sono già
infettate da questa mentalità distorta, nonostante questa ideologia stia in
forte contrasto con il messaggio cristiano. Quindi i cristiani non possono
aspettare che le chiese come grandi organismi si muovano. La resistenza deve
venire dal basso. In ambito cattolico p.es. mediante dei movimenti, in ambito
evangelico p.es. mediante piccole comunità indipendenti.
Secondo: Le chiese devono
riscoprire all'interno della loro tradizione quei elementi che possono aiutare a
contrastare la mentalità regnante. Penso p.es. all'Eucarestia. La condivisione
del pane e del vino è quel gesto che Gesù ci ha lasciato come testamento e in
cui si esprime tutta la sua mentalità che poi è diametralmente opposta a quella
descritta. O penso all'annuncio centrale della giustificazione per sola grazia.
Se oggi la gente cerca di guadagnarsi un valore mediante il proprio successo,
non è forse la stessa cosa come 500 anni fa, quando la gente cercava di
guadagnarsi la salvezza mediante le buone opere? C'è quindi tutto un lavoro
teologico da fare che ricuperi il messaggio cristiano per affrontare la crisi.
Terzo: le chiese devono liberare
le persone del sentimento di impotenza che molti sentono di fronte alla crisi
economica. C'è un diffuso sentimento di fatalismo di fronte al dominio
dell'economia che paralizza e impedisce il cambiamento. L'annuncio dell'Evangelo
invece libera. Dove Dio entra nella nostra vita, si aprono nuovi orizzonti. Dove
Dio diventa il Signore, il dominio dell'amore ci libera dal dominio delle
potenze di questo mondo. Così liberato l'uomo può anche agire attivamente per un
mondo più giusto.
Quarto: la mancante risposta delle
chiese alla crisi economica accelera la loro perdita di significanza nella
società. Non è che le parrocchie spariranno, ma saranno sempre meno importanti.
Questo, perché una parrocchia aperta a tutti e con 5000 membri sulla carta, è
troppo disomogenea per poter vivere una vita cristiana convincente. Sarà
necessario che si formino piccole comunità e movimenti all'interno dei quali si
vive come in una grande famiglia. Non dico che come i primi cristiani devono
mettere tutti i loro beni in comune, ma di sicuro ci deve essere una forte rete
di solidarietà che impegna tutti e non lascia solo nessuno. Nelle chiese si
dovrebbe vivere una contracultura che dimostri nella realtà che altri modelli di
vita sono possibili.
Quinto: le chiese non devono solo
denunciare la falsa mentalità, ma devono anche impegnarsi politicamente per
diminuire i danni della mentalità economica. Visto che i mercati oggi sono
globalizzati, le chiese, anche esse globali, potrebbero perfino avere un ruolo
chiave per spingere a regolarizzazioni internazionali del mercato.
Naturalmente è facile di
promuovere valori come p.es. la solidarietà, ma è difficile trasformarli in
programmi politici concreti. Magari un programma di buone intenzioni può non
avere successo. Se p.es. si aumentasse le tasse ai ricchi per dare di più ai
poveri, i ricchi porterebbero i loro soldi all'estero e quindi i poveri
diventerebbero ancora più poveri. Oppure se si facesse il contrario e si
abbassasse le tasse ai ricchi per farli portare i loro soldi in Italia, magari
alla fine i ricchi diventerebbero ancora più ricchi mentre i poveri avrebbero
ancora di meno, perché allo Stato mancherebbero le tasse per i programmi di
educazione, sanità o solidarietà. Quindi non ci sono soluzioni facili, ma questo
non significa che dobbiamo arrenderci.
Come sia, anche se è difficile
parlare di programmi concreti, vorrei comunque accennare a un'idea che ritengo
molto promettente e cioè il reddito cittadino. L'idea viene promossa in numerose
variazioni e con diciture diverse, per cui il concetto non è univoco. L'idea di
base, che in seguito intendo con reddito cittadino, è che ogni cittadino,
indipendentemente se lavora o meno, riceva uno stipendio che gli permetta di
vivere in condizioni modeste, ma dignitose.
Non vorrei adesso discutere sulla
finanziabilità di quest'idea. Spesso il concetto viene respinto con l'argomento
che lo Stato non ha soldi, senza neanche prenderlo in considerazione. Però
questo modo di pensare tradisce già la dipendenza dalla mentalità economica.
Invece dovremmo capire che i soldi e l'economia sono mezzi non fini. Quindi
prima dovremmo pensare quale società vogliamo e poi si può riflettere sulle
possibilità e modalità di concretizzarla. Naturalmente il reddito cittadino
richiederebbe molti cambiamenti e un sistema di tassazione radicalmente diverso.
Comunque ci sono degli studi che si possono consultare e che sono molto
promettenti. Come sia, non è il luogo di parlare adesso sulle modalità di
realizzazione. Vorrei invece enumerare alcuni ragioni per cui un tale sistema
sarebbe augurabile.
1. Innanzitutto si tratta di una
questione di dignità. Trovo infatti una vergogna che in un paese, nonostante
tutto ricco, come l'Italia, delle persone in difficoltà vengono lasciate
sole.
2. Nel sistema attuale l'individuo
deve guadagnarsi un proprio valore e un posto all'interno della società. Con il
reddito cittadino invece ad ogni persona viene attribuito già un valore in
quanto persona. Ogni persona fa parte della società e può contare su una
solidarietà di fondo. Questa svolta potrebbe portare a un cambiamento
fondamentale di mentalità e di convivenza civile. Non c'è più la lotta tutti
contro tutti, ma sana competizione sulla base di una solidarietà di fondo.
Si dice che agli italiani manchi
il senso civico, la responsabilità per il bene comune che nei paesi nordici
sembra più sviluppata. Mi chiedo se questo, se è vero, non sia causato anche da
un sistema sociale differente. Chi sa che lo Stato gli aiuta quando è in
difficoltà, sarà molto più propenso di essere solidale anche lui con lo Stato.
C'è quindi un circolo vizioso che si autorafforza in positivo o negativo secondo
il livello di solidarietà offerto. Un cambiamento di mentalità potrebbe
abbassare l'indice di criminalità e di sottrazione delle tasse e aumentare il
volontariato e la beneficenza privata. Non sono cambiamenti da sottovalutare
anche economicamente.
3. L'idea che ognuno è
autoresponsabile per la propria fortuna, cioè basta lavorare, non è più valido.
Il progresso tecnologico ha razionalizzato il lavoro e per molti il lavoro non
c'è più. Inutile quindi di promettere sempre la creazione di nuovi posti di
lavoro o di aspettare una ripresa dell'economia che anche non risolverà il
problema. Dobbiamo renderci conto che con l'attuale sistema economico e lo
sviluppo tecnologico non c'è lavoro per tutti. Allora una società deve
riflettere cosa fare con le persone che non possono lavorare. Semplicemente
insistere sul dovere di lavorare e di lasciare solo chi non lo può fare, non mi
sembra una soluzione sensata.
4. Il reddito cittadino
rafforzerebbe il mercato interno. Oggi abbiamo le tecnologie e le capacità
industriali per produrre sufficientemente, affinché tutti possono vivere
serenamente. Invece le fabbriche chiudono o vanno in cassa integrazione, perché
la gente non ha i soldi per comprare i loro prodotti. È una situazione assurda.
In tempi preindustriali le crisi
erano spesso causate da una oggettiva mancanza di risorse, p.es. causato da un
maltempo e di una conseguente mietitura povera. Da allora siamo sempre ancorati
al vecchio principio della mancanza di risorse. Il progresso tecnologico invece
ci permette, cum grano salis, di produrre quello e quanto vogliamo. Importante è
quindi la gestione della produzione e la distribuzione dei prodotti per cui si
devono trovare modelli politici ed economici adeguati.
5. Grazie al progresso tecnologico
sempre meno persone possono produrre sempre più merce. Quindi nei ultimi decenni
il costo delle merci industriali è diminuito costantemente. La stessa cosa non
vale per tutte queste prestazioni che vengono fatte dalle persone in prima
persona, come gli educatori, p.es. insegnanti, o l'assistenza, p.es. gli
infermieri, o i cultori dell'arte, p.es. i musicisti ecc. Quindi cosa è
successo? Mentre le merci sono diventate sempre più economiche, le prestazioni
legate alle persone sono rimaste invariate. La conseguenza è da una parte che
tutte queste professioni vengono pagate molto male rispetto a chi lavora
nell'industria e quindi le menti migliori non le scelgono più, se non per
vocazione, e dall'altra parte la gente non può più permettersi di comprare i
loro servizi e preferisce invece comprare merci che sembrano aver un migliore
rapporto qualità prezzo. Tutto questo meccanismo conduce ad un impoverimento
culturale e umano enorme.
Cosa invece succede con il reddito
cittadino? Chi lavora riceve una parte dello stipendio, cioè la somma del
reddito cittadino, dallo Stato. Probabilmente i salari aumenterebbero un po',
sopratutto presso le categorie attualmente sottopagate, ma comunque il datore di
lavoro pagherebbe molto meno di adesso. Mentre questo meccanismo avrebbe solo
poca influenza sul prezzo delle merci, in quanto prodotte con poche persone e
molti macchinari, il reddito cittadino diminuirebbe radicalmente il costo di
lavoro assistenziale e culturale, in molti casi della metà. Quindi tutti questi
professioni culturali e assistenziali sarebbero nuovamente accessibili e
vivrebbero una rifioritura, cosa che sicuramente renderebbe la nostra società
molto più vivibile.
6. Il progresso tecnologico
continua e la ricerca sull'intelligenza artificiale e sui robot, che possono
assumersi compiti sempre più complessi, è in pieno sviluppo. Già adesso esistono
fabbriche quasi completamente automatizzate. E siamo solo all'inizio di una
nuova era di industrializzazione che cambierà la nostra vita radicalmente.
Questo progresso è pieno di pericoli come p.es. la monopolizzazione del potere,
ma è anche pieno di opportunità. Se oggi un operaio viene sostituito con un
robot, questo fatto viene visto negativamente, perché per l'operaio significa
povertà e esclusione. Invece dobbiamo creare una società in cui l'impiego di un
robot è un motivo di gioia, perché regala all'uomo tempo libero che può
sfruttare in modo creativo. Perciò il progresso tecnologico ci spinge a nuovi
modelli di economia e di società e dipende da noi se saranno positivi o
meno.
A monte di tutti i programmi
politici e economici c'è sempre una visione dell'uomo. Mi sembra che oggi i
programmi politici e economici vengono spesso dominati dalla mentalità economica
che come ho già descritto riducono l'uomo a mezzo in funzione dell'economia. Noi
come chiese dobbiamo difendere la dignità della persona che non deve mai essere
mezzo, ma fine. L'economia deve servire l'uomo, non viceversa. Quindi ci
dobbiamo fare promotori di concetti che rispecchino non la mentalità economica,
ma una mentalità cristiana o più generalmente detta umana. Penso che in questi
tempi di crisi e di cambiamenti enormi sia questa la vocazione più urgente delle
chiese e la loro credibilità dipenderà dal fatto che vi rispondano o meno.
Amen.